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Red Dead Redemption 2 è da mesi sulla bocca di tutti. Il capolavoro (l’ennesimo) targato Rockstar Games è un successo planetario, ha superato le già alte aspettative iniziali ed è entrato di diritto nell’olimpo del gaming contemporaneo. Come confermato di recente, Red Dead Redemption 2 ha venduto la bellezza di oltre 24 milioni di copie, cifre incredibili per un gioco che, per realizzazione tecnica, game design e gameplay, è considerato tra le uscite più interessanti degli ultimi anni.
Qual è il segreto di un tale successo? È presto detto: Red Dead Redemption 2 è un mix riuscito di game design e profondità di gioco. Non stiamo parlando semplicemente di un gioco ben realizzato, ma di un’evoluzione dei videogiochi open world che hanno caratterizzato questa e la precedente generazione di console (qualche esempio: la serie The Elder Scrolls, Assassins Creed e la serie GTA della stessa Rockstar).
Red Dead Redemption 2 è un racconto da vivere, la cui trama è stata ben articolata e strutturata in modo da tenere incollato il giocatore.
Accanto alla trama principale, la Rockstar Games ha pensato bene di aggiungere una miriade di missioni casuali sparse in un mondo enorme, da esplorare e con cui interagire a livelli mai visti prima. La profondità del gioco passa anche dalla notevole quantità di azioni possibili e, grazie all’intelligenza artificiale, sviluppata come mai prima.
Interpretare Arthur Morgan in quello che è a tutti gli effetti il prequel del primo Red Dead Redemption significa interpretare un personaggio altamente “realistico” in un contesto vibrante, in cui la vita si svolge sotto i propri occhi come se stesse accadendo in quel preciso momento e in cui a una qualsiasi decisione corrisponde una “reazione” conseguente nel mondo circostante.
La storia, ambientata nel 1899, ha trasportato i giocatori durante la fase finale del vecchio West, un periodo storico in cui la modernità stava irrompendo con tutte le sue novità a stravolgere il mondo conosciuto fino a quel momento. Il protagonista, il già citato Arthur Morgan, è un fuorilegge cresciuto con i fuorilegge, che non ha conosciuto altro che la vita del bandito: spetta al giocatore scegliere quali azioni fargli compiere, influendo così sull’etica e la morale del protagonista. Ma la chicca è la caratterizzazione non solo del protagonista, ma anche del resto della gang, andando a influenzare il rapporto tra Arthur Morgan e gli altri fuorilegge, interazione che anzi è determinante ai fini dell’evoluzione della trama.
Altra perla aver dato ai cavalli, i compagni più fedeli di cowboy e banditi, una personalità ben precisa a seconda delle razze, con differenti comportamenti e reazioni alle varie situazioni di gioco. Prendersi cura del proprio cavallo, farlo “crescere” e soprattutto evitare che venga ucciso è fondamentale per l’azione videoludica.
Ciò che dunque colpisce del gioco è la varietà del gameplay: addirittura, come nel precedente episodio, c’è la possibilità di giocare a poker (nella variante Texas Hold’em), che da sempre è presente nell’immaginario delle persone e nella cultura popolare anche grazie a film, libri, dischi e, per l’appunto, videogiochi: l’aver inserito questo minigioco fa parte della volontà di ricreare un’atmosfera credibile e realistica (le persone, attorno, mentre giocano parlano e discutono dei propri affari) e, allo stesso tempo, dare ai giocatori un’ulteriore espansione del già profondo gameplay (e lo stesso vale per gli spettacoli al teatro Saint Denis, sempre diversi).
Rockstar, insomma, con Red Dead Redemption 2 ha stabilito un nuovo standard, elevatissimo, con cui i concorrenti dovranno giocoforza confrontarsi: un open world con una tale immersività, con un AI così sviluppata e con possibilità di interazioni così ampie non si era mai visto prima.
Red Dead Redemption 2, in conclusione, va oltre l’essere “semplicemente” un videogioco ma, un po’ come Fifa o Pokemon GO (che ai tempi risollevò le sorti della Nintendo), è un prodotto di culto e, soprattutto, culturale, nel senso che definisce e accoglie una comunità con valori, visioni e prospettive ben precise: non più e non solo il videogiocatore che “si intrattiene”, ma il videogiocatore che “vive un’esperienza”: un’esperienza che, come tale, trascende il semplice giocare.